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	 Ringrazio Ivana 
	Niccolai, che ci propone questa interessante lettura: 
	Antonietta Lelario, 
	Vita Cosentino, Guido Armellini, “BUONE NOTIZIE DALLA SCUOLA – Fatti e 
	parole del movimento di autoriforma”, Nuova Pratiche Editrice, 
	Milano 1998 
	Dalla quarta di copertina: “«Nel sessantotto si è lottato nella 
	scuola per salvare, tenere vivo e liberare il desiderio d'imparare, mentre 
	oggi lottiamo per ridare vita all'antico desiderio d'insegnare.» 
	Abstract: Della scuola si discute da anni, con argomenti che ritornano, in 
	apparenza uguali. La crisi sembra durare da sempre, immutabile al 
	trascorrere degli anni e degli eventi. Facilmente attaccabile nei suoi punti 
	deboli, quali per esempio l’inadeguatezza rispetto allo sviluppo sociale e 
	al mercato del lavoro, la scuola rischia di essere fraintesa nella sua 
	realtà più autentica: il rapporto educativo insegnanti/studenti, 
	essenzialmente umano e quindi vivo e imprevedibile.  
	Tra l’attivismo dei riformatori «dall’alto» e le proteste studentesche «dal 
	basso», gli insegnanti tornano così a prendere la parola interrogandosi con 
	tenacia e originalità sul «cuore» del loro mestiere.  
	Da Foggia a Bolzano, da Milano a Firenze, Roma e Catania, hanno organizzato 
	convegni e si sono poi incontrati in questo libro, che dà voce a pensieri, 
	storie, esperienze sul campo diverse. Da questo insieme polifonico, nasce 
	quel movimento di lotta per nulla rumoroso, che ha preso il nome di 
	“autoriforma gentile”, che desidera il cambiamento, purché non si butti via, 
	frettolosamente, quanto di buono c’è oggi nella scuola. Contro il 
	catastrofismo corrente, un libro chiaro, sapiente e, in fondo, allegro. 
	Perché vero. 
	Antonietta Lelario insegna italiano e storia in un istituto tecnico 
	commerciale di Foggia 
	Vita Cosentino, della Libreria delle Donne di Milano, insegna nella scuola 
	media. 
	Guido Armellini insegna a Bologna” 
	Dall’Introduzione: “Sulla scuola ricadono almeno tre contraddizioni. 
	E’ diventata di massa mantenendo una struttura e una concezione elitaria del 
	sapere; si è popolata di donne,  insegnanti  e studentesse, senza che 
	l’impronta maschile che ha segnato le sue origini sia stata sottopoposta 
	sufficientemente ad analisi; viene rappresentata come un luogo di 
	trasmissione di valori e saperi precostituiti, mentre proprio lì la domanda 
	di senso dei ragazzi e delle ragazze impone una decostruzione e una 
	ridefinizione di quei saperi e di quei valori.  
	     Chi  insegna con impegno e con passione si trova al centro di questa 
	crisi, e la vede rispecchiata in volti e corpi, in storie individuali, in 
	scambi di idee e di emozioni, con una concretezza che sfugge alle grandi 
	analisi sociologiche e ai grandi progetti di trasforma- zione per via 
	legislativa. Negli ultimi anni il discorso  dominante  sulla scuola ha  
	sostanzialmente eluso i problemi,  i conflitti,  le occasioni  che  
	scaturiscono  da questo incontro quotidiano tra generazioni giovani e 
	adulte:  un linguaggio gremito di metafore economi- cistiche («capitale 
	umano», «produttività», «flessibilità», «offerte», «contratti»,  «debiti» e 
	«crediti») ha sancito come naturale l’assunzione del mercato quale modello 
	del  processo  formativo,  appiattendo  le relazioni  educative  sulla 
	logica della  competizione e del principio di prestazione;  l’enfasi  
	sull’acquisizione  di  «abilità certificabili» spendibili sul mercato del 
	lavoro  ha   rafforzato  gli  atteggiamenti  tecnicistici, tesi a 
	neutralizzare la soggettività sessuata degli esseri umani, riducendola a 
	funzione  anonima;  i marchingegni curriculari e le tassonomie 
	programmatorie, sfornati dagli specialisti di didattica, anziché produrre 
	qualità ed efficienza, hanno accentuato la passività e la burocratizzazione. 
	Ma  fortunatamente la scuola, per la straordinaria varietà degli esseri 
	umani che la popolano,  non può essere  ridotta a un’ordinata sequenza di 
	procedure prescritte, controllate e misurate per legge:  l’esperienza 
	insegna che, entrando in un’ aula scolastica,  
	le discipline si trasformano, cercando nuove forme, e nuovi rapporti con la 
	società che cambia, in un processo vitale dagli esiti imprevedibili.  
	     Per  questo  ci siamo trovati – insegnanti donne e uomini – in  
	convegni e ora in un libro,  che  dà voce  a pensieri  e  desideri   
	scaturiti  dalla  pratica  di  questo mestiere denso di scoperte e di 
	sorprese,  esposto  alla  ricchezza  e al  rischio della relazione. E’ un 
	testo  polifonico,    perché   nasce  da   esperienze,  percorsi  e  storie  
	differenti,  e  presenta  dissonanze e punti di fuga, ma anche temi 
	ricorrenti ed emozioni comuni; è quest’ultima scoperta che ci fa pensare di 
	aver detto qualcosa di vero della realtà in cui viviamo.  
	     Una convinzione  ci accomuna:  se non  sapremo  dar spazio 
	all’elaborazione di una cultura che nasca dal desiderio e dalla  libertà  
	di  uomini  e  donne, ragazze e ragazzi, e trovare  un  linguaggio aderente  
	alla concretezza delle relazioni che si intrecciano nella scuola,   ben poco 
	potranno  servire norme e  riforme, anche se fossero - e raramente accade – 
	le migliori del mondo.  
	Per questo preferiamo parlare di «autoriforma gentile».” 
	Mi è piaciuto particolarmente l’articolo Chi valuta chi e perché di 
	Vita Cosentino, in cui viene sottolineato come  nella valutazione sia la 
	qualità della relazione a essere misurata. 
	A pagina 109 si legge: “[…] Armellini […] nel ’94 scriveva: «Humberto 
	Maturana ci ha detto che quando parliamo dell’intelligenza di una persona 
	non stiamo parlando di qualcosa che possiamo esaminare dentro la sua testa, 
	ma della qualità della relazione che abbiamo con lei, quindi ogni insegnante 
	che valuta la prestazione di un alunno, sta valutando se stesso che valuta 
	quella prestazione, il suo giudizio più o meno positivo non giudica lo 
	studente, ma la relazione che lui intrattiene con quello studente.» […] 
	La valutazione non è mai oggettiva, perché chi valuta è all’interno e non 
	all’esterno della relazione e ciò che dice, e ciò che fa, provoca una 
	risposta che, modificando l’assetto della relazione stessa, a sua volta 
	determina un’altra risposta che modifica, e così via, in un continuo 
	rimando.[…] 
	Se si esce dalla coincidenza tra valutazione e certificazione, ci si trova a 
	operare per un alleggerimento di tutti gli aspetti definitori e sanzionanti 
	e per un potenziamento, e una maggiore cura, di tutti gli aspetti dialogici 
	e interlocutori. Cambia ciò che diventa significativo per me che insegno. 
	Nell’ottica certificativo-classificatoria è significativo, per esempio, fare 
	una vasta batteria di prove, di test, perché quello che l’insegnante dice, 
	anzi scrive, di un allievo o di un’allieva, sia comprovato e comprovabile. 
	Per certificare devo avere tutti i test di riferimento, che attestino la 
	verità di quello che sto scrivendo.  Nell’ottica regolativa-relazionale, 
	invece, diventa molto più significativo ascoltare, soppesare le parole, 
	scegliere come rispondere, cogliere, per esempio, il mutamento 
	dell’espressione del viso e su questo riaggiustare la comunicazione. […]”  |