Ultimo aggiornamento: 29/09/2005

 
Sezione curata da Maria Giovanna Melis

Ringrazio Ivana Niccolai, che ci propone questa interessante lettura:

Antonietta Lelario, Vita Cosentino, Guido Armellini, “BUONE NOTIZIE DALLA SCUOLA – Fatti e parole del movimento di autoriforma”, Nuova Pratiche Editrice, Milano 1998
Dalla quarta di copertina: “«Nel sessantotto si è lottato nella scuola per salvare, tenere vivo e liberare il desiderio d'imparare, mentre oggi lottiamo per ridare vita all'antico desiderio d'insegnare.»
Abstract: Della scuola si discute da anni, con argomenti che ritornano, in apparenza uguali. La crisi sembra durare da sempre, immutabile al trascorrere degli anni e degli eventi. Facilmente attaccabile nei suoi punti deboli, quali per esempio l’inadeguatezza rispetto allo sviluppo sociale e al mercato del lavoro, la scuola rischia di essere fraintesa nella sua realtà più autentica: il rapporto educativo insegnanti/studenti, essenzialmente umano e quindi vivo e imprevedibile.
Tra l’attivismo dei riformatori «dall’alto» e le proteste studentesche «dal basso», gli insegnanti tornano così a prendere la parola interrogandosi con tenacia e originalità sul «cuore» del loro mestiere.
Da Foggia a Bolzano, da Milano a Firenze, Roma e Catania, hanno organizzato convegni e si sono poi incontrati in questo libro, che dà voce a pensieri, storie, esperienze sul campo diverse. Da questo insieme polifonico, nasce quel movimento di lotta per nulla rumoroso, che ha preso il nome di “autoriforma gentile”, che desidera il cambiamento, purché non si butti via, frettolosamente, quanto di buono c’è oggi nella scuola. Contro il catastrofismo corrente, un libro chiaro, sapiente e, in fondo, allegro. Perché vero.
Antonietta Lelario insegna italiano e storia in un istituto tecnico commerciale di Foggia
Vita Cosentino, della Libreria delle Donne di Milano, insegna nella scuola media.
Guido Armellini insegna a Bologna”
Dall’Introduzione: “Sulla scuola ricadono almeno tre contraddizioni. E’ diventata di massa mantenendo una struttura e una concezione elitaria del sapere; si è popolata di donne,  insegnanti  e studentesse, senza che l’impronta maschile che ha segnato le sue origini sia stata sottopoposta sufficientemente ad analisi; viene rappresentata come un luogo di trasmissione di valori e saperi precostituiti, mentre proprio lì la domanda di senso dei ragazzi e delle ragazze impone una decostruzione e una ridefinizione di quei saperi e di quei valori.
     Chi  insegna con impegno e con passione si trova al centro di questa crisi, e la vede rispecchiata in volti e corpi, in storie individuali, in scambi di idee e di emozioni, con una concretezza che sfugge alle grandi analisi sociologiche e ai grandi progetti di trasforma- zione per via legislativa. Negli ultimi anni il discorso  dominante  sulla scuola ha  sostanzialmente eluso i problemi,  i conflitti,  le occasioni  che  scaturiscono  da questo incontro quotidiano tra generazioni giovani e adulte:  un linguaggio gremito di metafore economi- cistiche («capitale umano», «produttività», «flessibilità», «offerte», «contratti»,  «debiti» e «crediti») ha sancito come naturale l’assunzione del mercato quale modello del  processo  formativo,  appiattendo  le relazioni  educative  sulla logica della  competizione e del principio di prestazione;  l’enfasi  sull’acquisizione  di  «abilità certificabili» spendibili sul mercato del lavoro  ha   rafforzato  gli  atteggiamenti  tecnicistici, tesi a neutralizzare la soggettività sessuata degli esseri umani, riducendola a funzione  anonima;  i marchingegni curriculari e le tassonomie programmatorie, sfornati dagli specialisti di didattica, anziché produrre qualità ed efficienza, hanno accentuato la passività e la burocratizzazione. Ma  fortunatamente la scuola, per la straordinaria varietà degli esseri umani che la popolano,  non può essere  ridotta a un’ordinata sequenza di procedure prescritte, controllate e misurate per legge:  l’esperienza insegna che, entrando in un’ aula scolastica,
le discipline si trasformano, cercando nuove forme, e nuovi rapporti con la società che cambia, in un processo vitale dagli esiti imprevedibili.
     Per  questo  ci siamo trovati – insegnanti donne e uomini – in  convegni e ora in un libro,  che  dà voce  a pensieri  e  desideri   scaturiti  dalla  pratica  di  questo mestiere denso di scoperte e di sorprese,  esposto  alla  ricchezza  e al  rischio della relazione. E’ un testo  polifonico,    perché   nasce  da   esperienze,  percorsi  e  storie  differenti,  e  presenta  dissonanze e punti di fuga, ma anche temi ricorrenti ed emozioni comuni; è quest’ultima scoperta che ci fa pensare di aver detto qualcosa di vero della realtà in cui viviamo.
     Una convinzione  ci accomuna:  se non  sapremo  dar spazio all’elaborazione di una cultura che nasca dal desiderio e dalla  libertà  di  uomini  e  donne, ragazze e ragazzi, e trovare  un  linguaggio aderente  alla concretezza delle relazioni che si intrecciano nella scuola,   ben poco potranno  servire norme e  riforme, anche se fossero - e raramente accade – le migliori del mondo.
Per questo preferiamo parlare di «autoriforma gentile».”
Mi è piaciuto particolarmente l’articolo Chi valuta chi e perché di Vita Cosentino, in cui viene sottolineato come  nella valutazione sia la qualità della relazione a essere misurata.
A pagina 109 si legge: “[…] Armellini […] nel ’94 scriveva: «Humberto Maturana ci ha detto che quando parliamo dell’intelligenza di una persona non stiamo parlando di qualcosa che possiamo esaminare dentro la sua testa, ma della qualità della relazione che abbiamo con lei, quindi ogni insegnante che valuta la prestazione di un alunno, sta valutando se stesso che valuta quella prestazione, il suo giudizio più o meno positivo non giudica lo studente, ma la relazione che lui intrattiene con quello studente.» […]
La valutazione non è mai oggettiva, perché chi valuta è all’interno e non all’esterno della relazione e ciò che dice, e ciò che fa, provoca una risposta che, modificando l’assetto della relazione stessa, a sua volta determina un’altra risposta che modifica, e così via, in un continuo rimando.[…]
Se si esce dalla coincidenza tra valutazione e certificazione, ci si trova a operare per un alleggerimento di tutti gli aspetti definitori e sanzionanti e per un potenziamento, e una maggiore cura, di tutti gli aspetti dialogici e interlocutori. Cambia ciò che diventa significativo per me che insegno. Nell’ottica certificativo-classificatoria è significativo, per esempio, fare una vasta batteria di prove, di test, perché quello che l’insegnante dice, anzi scrive, di un allievo o di un’allieva, sia comprovato e comprovabile. Per certificare devo avere tutti i test di riferimento, che attestino la verità di quello che sto scrivendo.  Nell’ottica regolativa-relazionale, invece, diventa molto più significativo ascoltare, soppesare le parole, scegliere come rispondere, cogliere, per esempio, il mutamento dell’espressione del viso e su questo riaggiustare la comunicazione. […]”

 

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