Ultimo aggiornamento: 27/08/2006

 
   

Ivar Ekeland, “IL MIGLIORE DEI MONDI POSSIBILI – Matematica e destino”, Titolo originale “Le Meilleur des mondes possibles. Mathémetiques et destinée”, Traduzione

di Carlo Tatasciore, Schema grafico della copertina di Pietro Palladino e Giulio Palmieri, Bollati Boringhieri, Prima edizione aprile 2001 (Pagine: 298)
Esiste una “venerabile” tradizione filosofica secondo la quale il mondo in cui viviamo è il migliore dei mondi possibili. L’autore afferma che tale tradizione non pretende che questo mondo sia buono o che l’esistenza sia desiderabile, ma essa sostiene che non si poteva fare di meglio, in quanto nel mondo tutto è intimamente connesso, non è possibile modificare la realtà in certi punti senza toccarla in altri e i mondi virtuali che potremmo immaginare, paesi da cui la sofferenza e la morte sarebbero assenti, sono impossibili anche per Dio.
La questione di sapere se questo mondo sia il migliore dei mondi possibili ha da molto tempo acquisito la sua autonomia filosofica. “Si tratta di scoprire i vincoli che pesano sull’esistenza, di mostrarne la coerenza logica deducendoli tutti da un piccolo numero di leggi fondamentali dell’universo, e di constatare che l’insieme dei mondi che vi si conformano è abbastanza ridotto perché il mondo reale appaia in definitiva come preferibile a tutti quelli che avrebbero potuto essere.”  La posizione di chi è convinto che i vincoli logici determinino completamente l’esistente ha sempre avuto ardenti difensori tra coloro che cercano di penetrare i segreti dell’universo. Nel 1986 Steven Weinberg disse: «Quando saremo arrivati alla fine, vorremmo poterci dire che le cose non potevano stare diversamente.» L’impegno del fisico consisterebbe, dunque, nel dimostrare che il mondo è il frutto della sola necessità, non del caos e che il nostro mondo sarebbe il migliore possibile per l’ottima ragione che sarebbe il solo possibile.
Verso la metà del XVIII secolo, Maupertuis, allora presidente dell’Accademia delle scienze di Berlino, aveva creduto di fornire una risposta definitiva. Le sue ricerche matematiche lo avevano condotto alla scoperta di un principio unificatore, che consentiva di ritrovare tutte le leggi fisiche conosciute. “Secondo lui, a ogni possibile movimento è associata una quantità, che egli chiama azione e di cui dà l’espressione matematica; inoltre, secondo la sua formulazione, il movimento reale, quello cioè che avrà luogo, è quello che renderà tale quantità la più piccola possibile. Questo è il principio di minima azione, in base al quale la natura sceglie, tra tutti i movimenti possibili, quello che minimizza l’azione.”
Secondo Maupertuis è il principio di minima
azione a unificare la fisica e la metafisica: in tale economia dell’azione, che regola l’universo, si svelerebbe la saggezza divina.
Ciò che nel principio di minima azione è degno di nota, è il fatto che esso si esprime in forma matematica, permettendo di verificarlo in alcuni semplici casi in cui è possibile effettuare i calcoli. Mezzo secolo prima, Leibniz aveva ottenuto risultati simili, senza raggiungere la stessa generalità di Maupertius e senza dare loro la medesima importanza. Leibniz ha separato la filosofia dalla matematica e se la riflessione l’ha fatto giungere all’idea che questo sia il migliore dei mondi possibili, ciò è avvenuto per ragioni indipendenti dal principio di minima azione. È stato Maupertius a cercare di fondare una filosofia su un risultato matematico e Voltaire non ebbe difficoltà a trovare il modo per metterlo in ridicolo e, inoltre, nel Candido nominerà Leibniz e non Maupertius; poiché viene letto maggiormente il Candido rispetto alla Monadologia, la filosofia di Leibniz finì per essere assimilata facilmente a quella di Pangloss, il famoso “professore di metafisico-teologo-cosmoscemologia”, il quale “passa attraverso le peggiori
catastrofi spiegando che tutto va bene”.
La conseguenza della polemica, aperta da Voltaire, fu il discredito totale in cui caddero le interpretazioni filosofiche del principio di minima azione, mentre la sua validità scientifica venne, infine, confermata, anche se in forma diversa da quella attribuitagli da Maupertuis. Una prima riabilitazione di tale principio avvenne all’inizio del secolo, quando ci si accorse che esso rappresentava una delle chiavi che permettevano di passare dalla meccanica classica alla fisica quantistica. “Più di recente, esso ha conosciuto una vera e propria rinascita: gli ultimi sviluppi della matematica hanno permesso di scoprirne delle conseguenze insospettate, tra le quali un principio di incertezza nella meccanica classica, e di aprire un nuovo campo alla ricerca: la geometria simplettica.” Tutta questa storia viene raccontata in questo volume seguendo un percorso che parte dalla fisica, passa attraverso la filosofia e ritorna verso la matematica, proseguendo, poi, per la biologia e terminando nell’economia.
Poiché per formulare il principio di minima azione è necessario conoscere che cos’è il tempo, l’autore presenta Galileo nelle prime pagine del libro; il pendolo isocrono di Galileo ha un’importanza considerevole nella storia della scienza, esso fa del tempo una grandezza omogenea che, come una lunghezza, si può dividere in parti uguali e quindi misurare.
Prima di Galileo il movimento è fonte di paradossi, nati nell’Antichità greca (Zenone di Elea pretendeva di dimostrare che Achille, piè veloce, mai potrà raggiungere una tartaruga partita davanti a lui). “Dopo Galileo, lo studio del moto è ridotto a un problema di geometria, i paradossi si dissolvono e le soluzioni hanno la calma evidenza delle verità matematiche.”
Viene poi preso in considerazione, con la filosofia di Leibniz, lo sfondo ideologico su cui si dispiegherà il principio di minima azione, di cui si analizzano anche gli sviluppi.
Ivar Ekeland osa pensare che il programma di Galileo resti ancora incompiuto, ma che negli ultimi vent’anni si siano registrati progressi molto importanti. “In realtà Galileo cercava di esprimere il tempo con lo spazio, il movimento con la figura, i problemi di meccanica con problemi di geometria. La geometria in questione esiste: è la geometria simplettica; essa tuttavia è stata scoperta due secoli dopo di lui, e solo molto recentemente la matematica ha fatto progressi sufficienti per poterla studiare con successo.”
Il libro non si conclude, però, con un’esposizione di geometria simplettica, ma cerca di rispondere alla seguente domanda (domanda implicita già nel titolo): questo mondo è il migliore dei mondi possibili? L’autore mostra che dal punto di vista del matematico, o del fisico, “il principio di minima azione non può essere in alcun caso inteso come un principio di ottimalità” e cerca una risposta altrove, interrogando
i biologi e poi gli economisti.
Nella fisica o nella matematica nulla ci permette di giungere alla conclusione che questo mondo è il migliore possibile, ma, forse, a tale risultato arrivano le leggi della biologia, dal momento che la selezione naturale porta alla sopravvivenza dei migliori. Inoltre l’economia ci fa assistere a un costante miglioramento delle condizioni di vita dell’umanità; se questo mondo non fosse
naturalmente il migliore possibile,
gli esseri umani non hanno, forse, la possibilità di renderlo tale?
Anch’io, come Ivar Ekeland, sono convinta che l’avventura intellettuale del terzo millennio dovrebbe consistere nel cercare di costruire “un pezzo alla volta un mondo migliore, salendo dalle difficoltà più semplici verso le più complicate, dai problemi dell’ambiente ai problemi della società, senza aspettare che le cose si sistemino da sole e senza credere che questa o quella ideologia fornisca delle risposte già pronte.”
 

Note sull’autore

Ivar Ekeland è professore di matematica all’Università di Paris-Dauphine, che ha presieduto dal 1989 al 1994. È stato insignito del premio Jean Rostand per la divulgazione scientifica.